Quella linea tra la vita e la morte

di Stefano Bataloni 

È successo alcuni giorni fa che un padre e una madre abbiano fatto varcare al loro figlio (o figlia, non si sa), malato da tempo e minorenne, quella linea che separa la vita dalla morte. Lo hanno fatto di proposito, dicono col consenso del figlio stesso. Lo hanno fatto, per la prima volta, col consenso anche della legge.

Per buona parte della sua vita anche mio figlio ha camminato lungo quella linea. Lui non sapeva bene quanto importante fosse quella linea, cosa c’è da una parte e cosa c’era dall’altra. Io ne sapevo solo poco di più.

Nel corso di quegli anni mi sono domandato un’infinità di volte se non fosse meglio, di fronte alle sue sofferenze, che anche lui varcasse quella linea. Per un’altra infinità di volte, di fronte ai periodi buoni e fuori dall’ospedale ho desiderato di non vederlo mai varcarla.

Ho visto Filippo soffrire molto: ricordo il dolore dei prelievi di midollo o delle rachicentesi, i dolori per la polmonite. L’ho visto spento e frastornato a causa dei chemioterapici, l’ho visto arrabbiato per colpa del cortisone. L’ho visto vomitare senza sosta perché non gli avevano dato l’antiemetico. Lo ricordo sanguinante perché senza piastrine, inappetente e con la bocca piena di afte perché il suo organismo era così debole da non riuscire a proteggere e ricostruire le sue mucose.

In quegli anni avremmo potuto “gettare la spugna” diverse volte, tanto più che col passare del tempo la conoscenza sulla entità e la profondità della sofferenze a cui Filippo sarebbe andato incontro è cresciuta via via.

All’esordio della sua leucemia, aveva tante probabilità di sopravvivere, ci dissero circa l’80%. Era scontato dover procedere con la chemioterapia.

Poi andò incontro alla sua prima recidiva e a quel punto le probabilità di farcela si ridussero molto: sottoponendolo a un trapianto di midollo osseo, ci dissero, sarebbero state del 50%. Andammo avanti, il trapianto poteva essere l’occasione buona per ottenere una cura definitiva.

Filippo ebbe però altre due recidive e andò incontro ad altrettanti trapianti, con tutto il carico di terapie, controlli, fatiche, sofferenze e dolori che questi comportarono per il suo fisico e la sua mente.

Noi continuammo ad andare avanti nonostante sapevamo che il secondo trapianto avrebbe avuto solo residuali probabilità di portare alla guarigione e che il terzo sarebbe stato in pratica solo un tentativo disperato.

Fu accanimento nei confronti di nostro figlio? Perché non ci siamo fermati prima? Perché invece quella mamma e quel papà si sono arresi e hanno permesso che venisse tolta la vita al loro bambino?

È molto difficile rispondere a queste domande e sono certo che la mia storia non è come la storia di tante altre famiglie con figli malati. Cosa ne so io di una mamma che dovrà assistere per tutta la vita un figlio che prima di nascere ha avuto emorragie cerebrali e ha problemi agli occhi? O di quella mamma la cui bambina è nata con metà cervello pieno di sangue e deve essere continuamente sottoposta a interventi chirurgici da far tremare le ginocchia?

Io so solo che in tutti gli anni in cui Filippo è stato malato abbiamo sempre conservato la  consapevolezza profonda che la sua vita fosse il dono più grande della nostra vita: un solo giorno accanto a lui, anche l’ultimo respiro accanto lui sarebbe stato quel qualcosa che dava senso a tutta la nostra esistenza; eravamo stati concepiti, eravamo stati uniti e avevamo generato la vita proprio per quegli istanti.

Io so solo che in quegli anni, tra paure, angosce e sofferenze vedemmo Filippo crescere, lo vedemmo ridere felice mentre era attaccato a due o tre pompe per l’infusione dei farmaci, lo vedemmo costringerci a giocare con lui in una stanza d’ospedale mentre noi saremmo stati forse volentieri a piangerci addosso in un angoletto.

L’ultimo trapianto di midollo, quello più disperato, talmente disperato che si fece fatica a trovare abbastanza letteratura scientifica da poter stimare le probabilità di successo, ci ha regalato forse l’anno più bello che abbiamo vissuto vicino a Filippo.

Poi, dopo quell’anno meraviglioso, fummo portati di nuovo vicino a quella linea: ci fu la quarta recidiva di malattia. 

Avremmo potuto andare oltre, i medici ci offrirono pure dei trattamenti che sapevamo avrebbero potuto allungare ancora un po’ la vita di nostro figlio.

Arrivò il momento in cui dovemmo dare una risposta a quelle domande: dovemmo decidere se non fosse meglio per lui lasciare che varcasse quella linea. 

Scegliemmo di addentrarci in un terreno sconosciuto, di accompagnare Filippo a varcare quella linea, ignari di cosa questo avrebbe comportato per lui e di come questo avrebbe cambiato le nostre vite. Non sapevamo affatto se avremmo avuto le forze per affrontare quegli ultimi giorni con nostro figlio. 

Scegliemmo di affidarci.

Ecco, mi appare del tutto evidente oggi che gli anni vissuti con Filippo, solo per aver detto col cuore “Signore, io non ce la faccio, fai tu per me!”, mi hanno scaraventato ai piedi di una croce, la Croce di Gesù. Da lì ho assistito al Suo calvario, l’ho visto innalzato sulla croce; ero lì mentre riconsegnava a Dio Padre la sua anima. Ero lì, insieme a tanti, mentre festeggiavamo la Sua Pasqua di Resurrezione e sono qui, ora, che vivo in attesa di poterlo rivedere.

Con profonda tristezza, mi rendo conto che coloro che non hanno conosciuto quell’Uomo, figlio di Dio, o non gli hanno aperto la porta del loro cuore forse non hanno alcuna possibilità di dare un senso alla sofferenza del loro figlio malato e che oltre quella linea vedono solo il nulla. E allora si rende possibile anche ciò che va contro la natura umana, contro la nostra innata tendenza a difendere il più debole: si rende possibile che una madre tolga la vita al proprio figlio.

13 risposte a "Quella linea tra la vita e la morte"

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  1. Grazie. Ancora una volta. Quando ho letto la storia di quella famiglia ho pensato subito a Filippo e ai tanti bambini (e non bambini) che sono nella sofferenza, una sofferenza a volte terribile.
    Da anni conosco le due facce della medaglia: chi ha fede riesce a camminare un po’ meglio perché non è solo; chi non ha fede fa molta più fatica perché non capisce e rfiuta la malattia.
    Conosco persone che sono in situazioni disperate: un mio carissimo amico malato di SLA comunica da anni solo con gli occhi e il computer, peg e tracheo, Sembra sempre che stia per lasciarci… eppure non vuol lasciarci e ci insegna la speranza contro ogni speranza. Questo è il lato A. Poi, il lato B: la rabbia, la disperazione, anche le bestemmie (atei…!?!). A volte sembra che le due facce coincidano. Altre volte che si alternino.
    Non sto giudicando. Chi sono io per farlo? Posso solo guardare e pregare… e far pregare. La preghiera aiuta, anche se i diretti interessati non credono in Dio e/o nella potenza dell’intercessione. Per vie strane, incomprensibili, casuali (il caso con Dio non esiste)… qualcuno chiede aiuto e preghiere per loro. A volte si tocca con mano che il Signore ascolta. Altre volte sembra che sia sordo. Ma Lui opera sempre e comunque. Solo di Là vedremo quante cose belle ha fatto. Certo, noi aspettiamo che faccio quello che chiediamo e nelle modalità che pensiamo… ma Lui ha una metodologia diversa, che ha risultati migliori anche se a noi sembrano i peggiori possibili.
    Vi abbraccio! Smack! 🙂

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  2. Son tutti a ciarlare di lenire le sofferenze quando invece sappiamo benissimo che il problema quanto costano le cure per chi (secondo loro) non ha più niente da dare alla società.
    Straparlano tutti di ammmmmore e non conoscono il valore di un sorriso di un bimbo come Filippo.
    Grazie per la vostra serena testimonianza.

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    1. Quelli che si riempiono la bocca di “ammore” e di “vita degna di essere vissuta” sono potenti e ben organizzati, ma sono quattro gatti.
      Di testimonianze come questa e certamente anche migliori di questa ce ne potrebbero essere tante, ma spesso restano tra quattro mura.
      A noi, indegni, almeno il compito di dargli voce.

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  3. “Con profonda tristezza, mi rendo conto che coloro che non hanno conosciuto quell’Uomo, figlio di Dio, o non gli hanno aperto la porta del loro cuore forse non hanno alcuna possibilità di dare un senso alla sofferenza del loro figlio malato e che oltre quella linea vedono solo il nulla. E allora si rende possibile anche ciò che va contro la natura umana, contro la nostra innata tendenza a difendere il più debole: si rende possibile che una madre tolga la vita al proprio figlio.”

    E lo fa perché in quella vita, ma soprattutto in quella sofferenza non vede più alcun senso…
    In quel momento “l’innata tendenza a difendere il più debole”, che è anche forse il bene più prezioso che senti di avere, fa proprio quella scelta pensando di “difendere” quel debole, quel debole figlio o figlia, che altro non può fare che soffrire.

    Dobbiamo renderci conto che è una grazia immensa, avere una visione diversa della vita, della morte e della sofferenza e che pure questa “visone” non basta da sola nel momento di una prova così tremenda… e lo capiamo bene dal racconto di Stefano.

    Occorre la FEDE e un Fede “granitica” appoggiata nel Signore, per non fare una scelta diversa e Fede anche per discernere quando è ora di fermasi, di non cadere in un accanimento che vorrebbe non lasciassimo mai quel bene…

    Rendiamo grazie a Dio se di questa Fede siamo investiti, la stessa che non può non avere compassione di chi si dibatte in simili umane tragedie.

    Poi certo, in simili si possono insinuare in simili vicende, grettezze ed egoismi o solo paure invincibili, che se appartengono al cuore dei singoli sono realmente difficili da discernere, come vi sono invece precise responsabilità e valutazioni da fare su una società che contempla l’eutanasia (come l’aborto, come altro) venga concessa e applicata, ma non confondiamo per quanto possibile, i due piani di questa grave questione.

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    1. Si, Bariom, un ringraziamento per questa Fede è dovuto.
      Così come è dovuta, e spero con questa riflessione di non aver dato impressione contraria, comprensione per la difficoltà di discernimento dei singoli di fronte alla sofferenza dei propri cari.
      Proprio perché ci siamo passati, e forse per noi è stato poca cosa rispetto a tanti altri casi, conosciamo le fragilità, gli egoismi e le paure di certi momenti e le tentazioni di cui si è investiti.
      E’ certamente una Grazia riuscire ad affrontarli e poi a superarli.

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      1. Impressione contraria? Niente affatto…

        Il cuore del discorso era tutto racchiuso nel tuo ultimo pensiero da cui sono partito per il mio commento.
        😉

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  4. L’ha ribloggato su l'ovvio e l'evidentee ha commentato:
    “Con profonda tristezza, mi rendo conto che coloro che non hanno conosciuto quell’Uomo, figlio di Dio, o non gli hanno aperto la porta del loro cuore forse non hanno alcuna possibilità di dare un senso alla sofferenza del loro figlio malato e che oltre quella linea vedono solo il nulla. E allora si rende possibile anche ciò che va contro la natura umana, contro la nostra innata tendenza a difendere il più debole: si rende possibile che una madre tolga la vita al proprio figlio.”

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